Fra i contributi critici dedicati alle mie opere, pubblico i saggi di Camilla Nacci, Fiorenzo Degasperi e Lucia Barison, scritti nel 2018, nel 2020, nel 2021 e nel 2022 per i cataloghi 'Marcello Nebl. Dolomites', 'Marcello Nebl. Nel segno della montagna' e 'Volti della montagna'.
Esistono luoghi che frequentiamo fin dall’infanzia, li viviamo tutti i giorni fino a conoscerne ogni ruga, fino a poterli percorrere a occhi chiusi. Una città o un paese cambiano aspetto, e ci si abitua in fondo anche alla chiusura di un vecchio negozio, o all’apertura di un nuovo bar, o alla costruzione di un grande palazzo; ma il paesaggio, e soprattutto la montagna, cambia solo in base alla nostra percezione, al nostro sguardo. Una montagna può avere un solo volto, oppure infiniti volti, in base alle nostre abitudini. La si può osservare da lontano, da una finestra, oppure esplorarne tutti i sentieri, scalarne la cima da diverse vie. Il suo fascino non conosce storie né geografie, è comune a tutti i tempi e a tutte le culture. Ukiyoe è una parola giapponese che significa letteralmente “mondo fluttuante” e veniva utilizzata per indicare un particolare genere di stampa xilografica a colori praticato da maestri dell’arte di metà Ottocento come Hokusai e Hiroshige, il cui uso del colore e del contorno nero ha influenzato intere generazioni di artisti, dal mondo occidentale fino al manga contemporaneo. Nei loro paesaggi la montagna sacra per eccellenza, il monte Fuji, era un soggetto ricorrente, dipinto da entrambi in diverse “vedute” e posto in relazione a molteplici scorci naturalistici, o alle attività dell’uomo. La ripetizione quasi ossessiva del soggetto testimonia una profonda dedizione al luogo, valida per gli artisti, ma anche per il loro pubblico, in una sorta di venerazione collettiva in cui riconoscersi. Un sentimento così universale da ritrovarlo tra gli amanti della montagna di ogni epoca, come nelle foto dell’alpinista trentino Eugenio Dalla Fior, tra i primi a immortalare le cime dolomitiche trentine da vicino, esplorandone visioni e prospettive. Se fotografare significa letteralmente “scrivere con la luce”, questo pioniere della fotografia alpina è riuscito a cogliere il perfetto dialogo chiaroscurale tra la roccia e il cielo, accentuato dalla resa in bianco e nero delle foto. È proprio una di queste il punto di partenza per Marcello Nebl. Dall’amore incondizionato per i “suoi” luoghi montuosi, di cui conosce ogni profilo, quasi i gruppi rocciosi formassero un unico, grande corpo, Marcello Nebl è riuscito a sintetizzare la nitidezza della fotografia e la poesia del disegno in una serie di opere su tela, tavola e carta che prende significativamente il nome di Dolomites. Un tributo alla roccia Dolomia e alle sue caratteristiche peculiari, al modo in cui cattura la luce e la riflette, ma anche ad alcuni scorci della Val di Non, terra di artisti e d’ispirazioni a cui l’artista intende dare una ri-collocazione attuale. L’attimo presente è rimarcato dai minuziosi tratti neri che caratterizzano tutte le opere, e descrivono in maniera quasi testuale la sua visione del territorio spostando la mera rappresentazione sul piano del fantastico. I cieli colorati, le rare e piccole figure umane e il riflesso del paesaggio sulle acque, sono indizi che conducono a un’astrazione dal luogo reale. Insito nel suo fare artistico è infatti il riferimento alla pittura di suo padre Silvano Nebl, cui rende omaggio mantenendo una piena autonomia e originalità nella resa delle opere. Marcello Nebl chiama per nome ogni montagna, a cui la presenza dell’uomo è in qualche modo necessaria ma subordinata alla forma immutabile della natura. In quella tensione verso l’alto presente nel suo personale “mondo fluttuante”, l’artista ci consente di ritrovare più o meno esplicitamente la relazione viscerale tra l’uomo e il paesaggio, tra l’uomo e i suoi luoghi.
Camilla Nacci
Si sente soffiare sommessamente lo “spirito delle montagne”.
Daisetz Suzuki
Di fatto prima creo la base “aerea” in acrilico, una fotografia che rappresenti la realtà, poi ingrandisco, quindi procedo disegnandoci sopra con china o pennarelli acrilici, per creare l’effetto grafico. Un lavoro lento, continuo.
Potrebbe sembrare banale iniziare un testo critico con la descrizione della tecnica esecutiva. Una tecnica molto semplice, oserei dire iperrealista, o pittura iperfotografica, ricordando gli approcci alla vita quotidiana degli artisti americani che si rifacevano a quest’arte. Peraltro senza dimenticare le esperienze europee degli artisti della Mec-Art. Invece conoscere la tecnica utilizzata da Marcello Nebl non è affatto banale. Perché a differenza dei vari Ralph Goings, Chuck Close, Stephen Posen o degli europei, Gianni Bertini, Mimmo Rotella, Alain Jacquet, Elio Mariani, ecc. (sostenuti dal critico Pierre Restany), il nostro artista dà alla tecnica un valore molto importante. Innanzitutto la sua tecnica non vuol essere una mera riproduzione dell’esistente e neppure una risignificazione delle immagini mediali. Per dirla in breve non è una mechanical-art, perché compito dell’artista non è copiare o imitare la natura, ma trasmettere all’oggetto la vitalità che gli è propria. E questo è ciò che si verifica nelle opere di Marcello Nebl, per diversi motivi sia concettuali sia pittorici. La tecnica esecutiva è un metodo di formazione che permette di cogliere la bellezza dell’esistenza, questa bellezza che supera ogni comprensione razionale, ogni significato utilitaristico, e che è il mistero stesso. Non si limita alla dimensione esteriore, descrittiva o men che meno narrativa. L’artista cerca di andare oltre la dimensione naturale, conducendoci a ciò che è più profondo e più essenziale, cioè la forma spirituale di queste montagne. L’arte di dipingere le montagne non è un’arte nel senso proprio del termine ma è l’espressione di una concezione della vita molto più profonda. Il dipingere montagne per l’artista equivale all’arte di disporre i fiori giapponese, l’ikebana, o allo svolgimento di una cerimonia del tè, dove sono importanti la concentrazione e la meditazione e durante la quale va sempre mantenuto un atteggiamento raccolto e pieno di rispetto. E dove il tempo viene scandito secondo un’economia che non è quella dello scorrere lineare e progressivo del dio Crono ma quella di una tradizione del dipingere che si avvicina molto all’astrazione dalla realtà. Come l’icona, per assurdo, il massimo di figurazione equivale al massimo di astrazione. Così la bellezza e l’armonia dell’opera si riflette in un’atmosfera che va al di là dell’aspetto meramente naturalistico per diventare forma di spiritualità (non di religiosità, sia ben chiaro), tendente a creare un’atmosfera mistica che schermisce la realtà sebbene quest’ultima sia il punto di partenza. Pervaso dalla ri-creazione delle montagne, l’artista parla con la lingua del cuore universale. Con queste modalità tecniche-concettuali Marcello Nebl entra nella fluente corrente di un pensiero che ha dei collegamenti stretti con lo zen giapponese e gli esiti sono delle cineserie in cui sono racchiusi valori che apparentemente, con una visione superficiale dell’opera, possono sfuggire e non essere colti nella loro pienezza. Ciò che differenzia questo genere pittorico dalla riproduzione pedissequa della realtà è l’esperienza che nasce da questo procedimento tecnico. La ricomposizione, pennellata dopo pennellata, graffio dopo graffio, dal particolare al generale, è un avanzare dal microcosmo al macrocosmo, dal frammento di roccia alla montagna, dalla pietra al canalone, dalla rupe al precipizio. L’artista ri-costruisce il mondo e lo fa rispettando gli aspetti tecnici della propria arte, con lealtà e sincerità, e mantenendo saldi questi principi ottiene la padronanza assoluta del proprio fare. Lealtà e sincerità potrebbero sembrare dei principi ovvi per chi produce arte. Ma non lo sono sempre. Lealtà e sincerità dovrebbero stare alla base del proprio patto regolativo e formativo tra l’Io e la propria Anima, e non tra l’Io e il Mondo. Senza lealtà e senza sincerità nessun artista potrà mai dire di esser originale e creativo. La sincerità e la lealtà o la devozione al proprio lavoro permettono all’artista di raggiungere il gradino più alto della scala, dato che il genio da solo non realizza mai niente di importante ai fini dello sviluppo completo del proprio essere. Ciascuno di noi, per quanto comune, possiede qualcosa dentro di sé, nella propria Anima, nascosto al livello superficiale della coscienza. Per risvegliarlo, per permettergli di realizzare opere importanti per sé e per gli altri, dobbiamo sforzarci al massimo e uscire dall’ingombrante “monoteismo” egoistico dell’Io. In queste opere c’è un altro risvolto, altrettanto importante, tutto occidentale. Ed è la tradizione degli skizzenbuch, di romantica memoria. Ogni opera è un racconto, è un dare voce alla natura della montagna, far scaturire lo spirito che in essa vive, nella consapevolezza che il nuovo e l’ignoto sono nello sguardo. Nel far questo Marcello Nebl prosegue la riflessione e la meditazione di viaggiatori, pittori, scrittori e poeti del Grand Tour che, a partire dal XVII secolo, hanno attraversato l’Europa dalle fredde brume del nord alle assolate terre mediterranee, alla ricerca di una natura che è in primis mitologia, storia non raccontata, cronaca della fantasia. In questo contesto le opere fanno parte di diritto – ne sono le figlie – di quel romanticismo che anche quando si declina in ricerca etnografica e naturalistica non tradisce mai l’Anima dei soggetti raffigurati. Lo skizzenbuch – materializzazione grafica e coloristica delle note musicali – cade sotto l’egida della velocità, dell’approssimazione, del non finito, dell’appunto (e del contrappunto musicale). Nel nostro artista lo skizzenbuch è la modalità dello sguardo sulla natura, su ciò che sta fuori di noi ma che è in sintonia con il noi, non il procedimento, non il metodo operativo. È la capacità di rimaner lontano da ogni intento sistematico e generalizzato per cogliere il senso di quanto osservato. E qui ci riallacciamo al discorso iniziale. Ogni pennellata è come fosse un haiku (Il vecchio stagno, ah! Una rana ci salta dentro: il suono dell’acqua, Bashò, 1643-1649). Perché, per dirla con Yagyû Tajma no kami Munenori, al di là della tecnica, sappi che c’è lo spirito. Sta albeggiando, apri il paravento e guarda! Entra splendendo la luce della luna: è essenziale dimenticare la propria “mente” e diventare una cosa sola con ciò che si sta facendo. L’osservatore ha il compito di ridare vita alle opere. Il Lago di Cima d’Asta oppure Cima Dodici, il mitico (alpinisticamente) Gran Pilastro delle Pale di San Martino o il romantico Lago di Tovel (quelle onde che si dipartono dal centro verso la periferia racchiudono, nel movimento, la memoria di Silvano Nebl, il padre artista) si offrono nella loro immediatezza e nella loro non, voluta, completezza ed esaustività, come luoghi in cui l’immaginazione di chi guarda può sentire lo scroscio dell’acqua, il sibilo del vento, la scarica assordante di sassi, lo scricchiolare del ghiaccio, lo scivolare della roccia nel canalone, il cupo rimbombo della rinascita primaverile della vita con il suo corteo di pietre che cadono (Monte Peller). O, come una lente che si avvicina sempre di più al soggetto (Diedro Ferhmann, Campanil Basso, Gruppo del Brenta), il disegno si offre come mappa geologica, regalandoci visioni astratte o, all’opposto, ingrandimenti talmente precisi da farci assaporare la roccia come fosse una pelle, l’epidermide di una vecchia saggia della natura (visto che la montagna è femminile): ogni crepa, ogni fessura, ogni fenditura è una ruga, un solco, nata per sconvolgimenti millenari. La natura come pelle, la pelle come carta geografica della vita. Riprodurre il piccolo non restringe la nostra visione del tutto, del grande, dell’infinito. Sempre caro mi fu quest’ermo colle, / E questa siepe, che da tanta parte / Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. / Ma sedendo e mirando, interminati / Spazi di là da quella, e sovrumani / Silenzi, e profondissima, quiete / Io nel pensier mi fingo …(Giacomo Leopardi, L’Infinito, 1818). Il piccolo suggerisce, ci fa rammentare il Tutto. Ce lo ricorda lo scrittore svizzero Solomon Gessner che, passeggiando per i monti, lasciò negli Idyllen del 1762 parole estatiche sull’erba: Questo mirabile mondo in miniatura, di infinita multiforme bellezza: innumerevoli specie di piante, milioni di creature diverse, alcune delle quali volano di fiore in fiore, mentre altre strisciano e si muovo qua e là, in labirinti d’erba… Oh, quanto sei bella, Natura! Nel tuo più piccolo ornamento, quanto sei bella! Opere che ci ricordano i disegni dolomitici di Douglas William Freshfield (1835-1934), gli schizzi di Amelia Edwards (1831-1892), di Josiah Gilbert e di George C. Churchill con i loro reportage delle Escursioni attraverso il Tirolo, la Carinzia, la Carniola e il Friuli nel 1861, 1862, & 1863. Tutti questi autori, compreso il nostro artista, sono consapevoli che oltre al reportage il nuovo e l’ignoto sono nello sguardo, come ci ricorda Remo Bodei in Scomposizioni. Nel perseguire con incredibile costanza e in maniera certosina la riproduzione di montagne, il Nostro è stato molto attento a non cadere in un tranello. Come notiamo in queste opere non ci sono uomini, né animali. Soltanto pura natura primigenia: pietra, acqua, legno. Come avesse voluto attenersi strettamente alle prime righe della Genesi: In principio Dio creò il cielo e la terra. Il pericolo, attualmente evitato, è quello di trasformare la Natura, attraverso il genere della pittura paesaggistica, in una forma aggiornata della barocca Vanitas, ovvero far aleggiare sulle opere il canto soffuso e venato della morte e sconfinare in una novella ars moriendi. Ovvero la natura morta come canto del cigno, testimone del passare del tempo, nel renderci consapevoli che noi non siamo nessuno di fronte all’imponenza di una parete rocciosa, di un canalone, di un lago, di uno spigolo. E sicuramente non sopravvivremo al sasso che rotola lungo un pendio e nemmeno all’eco del rumore che si propaga di croda in croda. L’immobilità del reale, di una montagna che si presenta immutabile nel tempo e nello spazio, suggerisce un giudizio inclemente sul nostro essere al mondo, fagocitati dalla velocità dei ritmi di vita che ci avvicina sempre più alla morte, sia essa fisica o psichica. Un tema, questo della Vanitas e dell’ars moriendi, antico come il mondo – la Controriforma e il Barocco ne furono soltanto degli amplificatori –, che si aggira silenziosamente nelle opere del Nostro artista, come una spada di Damocle. Fortunatamente, fino ad ora, non ha trovato radici con cui attecchire alla roccia e alla rupe, con cui propagarsi nelle acque ferme di un lago. Il soffio della morte non scorre in questi lavori. L’importanza della tecnica non lascia spazio alla filosofia della Morte. La dialettica tecnica-risultato è ciò che mantiene viva l’opera, la distanza crea un territorio neutro in cui il linguaggio può presentarsi ancora come multiplo, non univoco, allontanando in questo modo ogni parvenza di drammaticità. Sembra quasi che l’artista applichi quella parte di pensiero di Montaigne quando scrive che tormentiamo la morte con la nostra preoccupazione della vita. Quindi qui, in questi lavori, troviamo un forte sentimento di identità con le cose, un desiderio impellente di tornare a una forma di esistenza visiva semplice, vitale e dinamica, in cui poter genuinamente esprimere sentimenti e acquisire nuove conoscenze, tecniche in primis. I filosofi e gli studiosi zen – o comunque chi si rifà alle dottrine orientali – la chiamano via degli dèi, perché unisce il basso con l’alto, il verticale con l’orizzontale. Ed è la stessa via che attualmente percorre Marcello Nebl, nella consapevolezza che il sapere artistico non ha confini e che le montagne, da che mondo è mondo, non separano ma uniscono. E questa unione, questo collegamento al di là delle montagne, l’artista lo mantiene con la sua lentezza tecnica, dipingendo un frammento alla volta, la testa china, la mano ferma, immergendosi totalmente. In questo modo mantiene alta la poetica del tempo perduto, non lasciando niente alla memoria e al ricordo. Un tempo recuperato alla vita grazie alla filosofia del mettere un passo davanti ad un altro passo, evitando i salti (e quindi le cadute). Le sue montagne rientrerebbero di diritto nel racconto di Luis Sepùlveda Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza.
Fiorenzo Degasperi
Si dice che l’arte sia un’eredità che passa di mano in mano. Essa inorgoglisce e intimorisce per la prossimità del paragone in un’altalena emotiva che oscilla fra il desiderio di non deludere e quello di riuscire ad affrancarsi. Che sia una questione di DNA o di crescita in un contesto famigliare favorevolmente determinante, è certo che il nostro ha fatto sua la tradizione tecnico pittorica del padre, il pittore Silvano Nebl, evolvendo in un linguaggio del tutto personale, unico e, soprattutto, riconoscibile. Tanto più in un'opera è riconoscibile il “segno” del suo autore, tanto più sarà coerentemente rappresentativa nel corso degli anni. Va da sé che la creatività degli artisti non è mai costante nel tempo e a periodi di grande sperimentazione seguono spesso lunghe stagioni di ripetizione. Ma se l’arte è supportata dalla tecnica, come in una via di montagna attrezzata, la meta è riconoscibile, il percorso sicuro e l’emozione salvaguardata. Le opere di Nebl spingono lo spettatore a sporgersi oltre il limite del punto più alto raggiunto, conquistato, meditato. Milioni di tratti minuscoli materializzano scenari mozzafiato. Nulla è lasciato al caso perché le sue opere rievocano, attraverso la maniacale trasposizione orografica della natura incontaminata e lirica delle montagne, la più profonda sensazione che si prova dinanzi a quei panorami. Egli raffigura ampie vedute, scorci e quei particolari di solito raggiunti strizzando un pochino l’occhio, sospirando, tentando di restare immobili se non fosse per quel battito di cuore che dopo un’intensa fatica pompa sangue nel corpo più del solito causando quel leggero, costante, tremolio. Come una lente d’ingrandimento egli decide di avvicinare e ricompensare la curiosità dello spettatore portandolo in punti nevralgici, pareti rocciose, lingue di ghiaccio, cenge, costole, forcelle, crode, creste, falesie. Agli alberi, descritti uno ad uno, l’arduo compito di mediare il passaggio dalla natura più selvaggia a quella antropizzata, raggiungibile senza particolari compromessi oltre i quali la verticalità delle pareti sprigiona un’emozionante sentimento di impotenza sfidato, qua e là, da minuscoli e impercettibili scalatori. È una montagna indisturbata quella di Nebl. Discepolo silenzioso, osservatore di imponenti maestri muti immortalati per mezzo di un’equilibrata sinergia di quattro componenti fondamentali: occhi, testa, cuore e tempo. Il tempo è tiranno per un artista – come per uno scalatore - che, mentre è in azione, non sente l’inesorabile scadere degli istanti. Quasi colto in uno stato di trance egli costruisce l’immagine attraverso la tecnica, il colore, l’anima. Reinhold Messner un giorno disse “Quando guardo le montagne ho i sentimenti delle montagne dentro di me: li sento, come Beethoven che sentiva i suoni nella testa quando era sordo e compose la Nona sinfonia. Le rocce, le pareti e le scalate sono un’opera d’arte”. Un concetto, questo, ben compreso da Nebl che ha fatto suo uno stile descrittivo, talvolta fumettistico, maniacalmente orografico, singolare ed emozionante. L’arditezza della tecnica pittorica, l’impegno, la perseveranza e il rispetto del soggetto narrato senza esasperazioni artificiose, fanno di lui una guida spirituale per vivere la montagna anche solo attraverso la contemplazione. Nel percorso di Nebl vi sono anche, però, degli avvicinamenti a spazi antropizzati come l’eremo Santuario di San Romedio ritratto entro un eloquente taglio fotografico dove la verticalità del santuario è accentuata da opprimenti pareti rocciose. Alla luce l’importante ruolo di estrapolare l’articolata costruzione dall’ambiente circostante ed in generale, in tutte le opere, di ritmare gli spazi. La montagna come brano orchestrale – nelle opere di Nebl - composto da movimenti, ampie proporzioni, pause e improvvisi verticalismi. L’opera di Nebl è arte e musica. Basta solo guardare per sentire il suono quieto della montagna.
Lucia Barison
Il sentimento è tutto, la parola è soltanto suono e fumo Goethe, Faust e Urfaust Non c’è solo la certosina tecnica dell’artista nel creare montagne bidimensionali in quasi totale assenza di colore. Già di per sé l’ombra che il sole proietta appiattisce a due dimensioni ogni altezza e ogni abisso terreno, indicandoci l’umile origine a cui è destinata ogni cosa mortale. Forse è questo senso di impotenza di fronte all’inevitabile disgregazione delle cose – della pietra, dello scioglimento della neve, dell’albero che marcisce, dell’Anima che prende il volo dopo la morte – che rende l’artista parsimonioso nel tocco cromatico, come se volesse trattenere il più possibile dentro di sé, integro, il senso di appartenenza a questo mondo. Si aggira silenzioso, meditativo, tra foreste e valloni, tra altezze e abissi, tra la pietra assolata e il gelo del canalone, una profonda ruga della terra che il sole lo intravede soltanto. Nemmeno la candida neve depositata con estrema delicatezza e morbidezza (la natura riesce a fare ciò che l’uomo compie con impaccio, impastoiandosi) riesce a scacciare quel sottile senso di spaesamento, di incapacità di andare oltre il limite e perdersi nell’illimitato. Il limite della montagna è avvicinabile, si può lambire con lo sguardo, ma non è mai tangibile. Il bianco e nero è il canto del cigno dell’impotenza umana, del non voler superare il limite che significherebbe morire. Per questo il limite non è mai raggiungibile e le montagne dell’artista si pongono come territorio per eccellenza del limite. Non sappiamo cosa succeda dietro il diedro dolomitico, cosa si nasconda tra gli anfratti porfirici delle vette delle Maddalene o del Lagorai, quale canto o quale musica si nasconda negli specchi lacustri, occhi dell’anima per eccellenza. L’artista abita illimitatamente il limite e in questo modo trasforma la montagna da fatto fisico, materiale e corporeo a percorso scandito da opere, dittici e trittici – già di per sé concetti e immagini ricchi di rimandi storici, quinte teatrali dove l’attesa regna sovrana –, teso a una continua estasi panoramica. In questo stato psicologico dell’Anima il lavoro non è soltanto una somma di linee, di punti, di sovrapposizioni e di riduzioni ma apre le porte a mille sensazioni, dallo stupore al numinoso, al rapimento estatico, al mysterium tremendum nel trovarsi al cospetto dei giganti della natura (l’uomo davanti all’imponenza della Tofana o del Crozzon di Brenta sparisce, non è nessuno, ridiventa umile, come scompare ogni velleità umana quando ci si trova di fronte alla facciata occidentale della cattedrale gotica di Chartes), al timore, al sentirsi terra, cenere e nulla, al fascino, ecc. Tutti termnini densi di un respiro secolare e carichi di sentimenti, offerti dall’artista grazie alla sua grande capacità tecnica e al suo saper sfuggire all’oleografia e alla cartolina, al gratuito e al piacevole. In questo ci aiutano le parole di Torquato Tasso quando riflette sul portentoso – e le montagne lo sono – e sulla capacità della natura di farci sentire, talvolta, estraniati:
«Me infelice! Ancora non riesco a riprendermi! Quando si incontra qualcosa di imprevisto, Quando il nostro sguardo coglie qualcosa di portentoso, Il nostro spirito ammutolisce per un istante: Niente abbiamo con cui poterlo comparare».
Reinhold Messner, secoli dopo il Tasso, ci ricorda che «non le cime, non le difficoltà, non il record mi interessano, ma quello che succede all’uomo quando si avvicina alla montagna». Marcello Nebl si avvicina alla montagna in punta di piedi, la guarda, la osserva e la medita. In questo c’è un profondo senso di rispetto, le sue montagne sono da salutare al mattino con rispetto, quasi quasi invocando il saluto indù e nepalese namasté, io saluto quella parte di sacro che c’è in te. Non penetra la montagna, non la rende qualche cosa di intercambiabile e non la trasforma in spettacolo, in quinta scenografica. La quasi totale assenza dell’uomo nelle sue opere è sintomatica: vige il silenzio, interrotto solo dal fischio del vento che sbatte da parete in parete, che scende giù per valli e canaloni, che s’avvita lungo i pinnacoli e gli aghi dolomitici (Odle). Il silenzio della montagna, come quello dei deserti, è un silenzio ricco di luminosità, è luminoso anche quando le ombre si allungano smorzando e spegnendo i colori, appiattendo il mondo. In queste opere il silenzio è palpabile. Il silenzio è assoluto, ce lo ricorda la stessa volta celeste che si chiude lentamente su di esso. Ben lo sapevano un tempo gli eremiti, quelli veri, quelli che si isolavano per anni negli anfratti del corpo della montagna diventandone parte integrante, lottando con la natura e con i dèmoni delle vette, con le apparizioni lacustri delle ondine e delle ninfe, alla ricerca di una compiutezza e di una fusione con il tutto che non è da noi umani. Noi non siamo dèi. Non siamo come l’eremita Milarepa rintanato nelle grotte himalayane, nutrito quasi di nulla, che non sentiva il bisogno del cibo, nutrito dai geni aerei delle altezze che gli recavano parte delle offerte sacrificali fatte loro dagli uomini. “Non siamo divinità” sembrano recitare come un mantra queste opere che stanno al limite dei saperi artigianali con lo sguardo fotografico, non disdegnando neppure la suddivisione del colpo d’occhio in riquadri, come se l’opera fosse uno strip o l’occhio avesse bisogno di finestre per sporgersi nella vastità del creato. La natura raffigurata da Marcello Nebl, più che dal religioso Spirito, è guidata dall’anima, dalla voce segreta che abbiamo dentro, dal daimon che si sente libero, sempre di là da se stesso, sempre di là da ogni forma e da ogni grandezza che trovi in sé o fuori di sé, che si sveglia e riluce, vestito soltanto della propria forza e della propria debolezza. Un senso di solitudine solare, un senso indicibile di liberazione e di respiro, uno stato d’animo ottenuto grazie a una tecnica fatta di sospensioni, di silenzi, di vuoti e di assenze. È una tecnica che accarezza le suggestioni orientali, le profondità dello zen e lo sguardo alpino del Tao: nell’essenzialità del tratto, nella ristrettezza dell’essere, nel lavoro quasi scarnificato, raschiato, limato fino a toccare le corde giuste per far poetare l’opera stessa. Nell’opera, non fuori di essa, vive qualcosa che va oltre l’arte. La tecnica diventa esperienza, perché non si tratta di questa o quella conoscenza o teoria, sempre vana e relativa, bensì di un’esperienza che si presenta in modo da avere valore di per sé. Una pittura autonoma, rivolta su sé stessa, che trova il proprio senso rispecchiandosi nelle linee che diventando piano piano delle armonie, delle note musicali che, aggregandosi, danno vita a suoni melodici, talvolta dodecafonici, altre volte celestiali. Chi sa percepisce, chi non sa è perduto nelle cose esterne o nelle convenzioni. Per l’artista l’opera è allora un frammento musicale, osservarla è vedere la musica che scaturisce spontaneamente dalla montagna, dal paesaggio, dall’infinito e dal finito, che scende dai rivi diventando lago, che si spezza frantumando l’integrità della cima per diventare slavina, valanga, frana, morena. Nella loro limpidezza sono opere che mutano, metamorfiche, morfologiche, specchi dell’Anima in cui ogni spettatore può trovare quello che cerca perché l’artista non offre totalità, interezza e pienezza, ma assenza e presenza, vuoti e pieni, abissi e vertici, ombre e solarità, freddo e caldo. Se il colore dovesse dilagare – si percepiscono timide invasioni – non eliminerebbe tutto quanto scritto sopra. L’Anima semplicemente si mimetizzerebbe negli elementi del quadro, non fuggirebbe ma si nasconderebbe, camminerebbe guardando sempre all’indietro ma noi non noteremmo questo piccolo e apparentemente insignificante particolare. Ci sarebbe una lieve frattura tra la parola e il mondo, e l’opera di Marcello Nebl diventerebbe, a pieno titolo, un’opera romantica perché, come rammentano Eraclito e poi Höderlin, «la natura ama nascondersi». Ma ciò, probabilmente, non avverrà mai perché gettarsi nelle braccia dell’illimitatezza del colore vuol dire cadere nelle braccia dell’Angelo della Melancholia di Dürer, cioè accorgersi che gli elementi che abbiamo per creare il nostro piccolo mondo-opera sono insufficienti per comprenderci e per spiegarci, e saremo presi dalla struggente melanconia di un compito inarrivabile: dipingere il mondo. Intanto siamo al di qua dello spartiacque, stiamo ancora camminando in una montagna che ci sovrasta e non siamo noi a sovrastarla. Il tocco grafico essenziale, paziente, ci spinge a comprendere i nostri limiti, a farci guardare una natura “umana” a discapito di una natura intesa come vanitas, presaga di morte, memento mori.
Fiorenzo Degasperi